mercoledì 28 marzo 2012

La bottega

Dedico questa riproposizione a tutti coloro che non hanno mai conosciuto le botteghe di montagna con i loro odori caratteristici, i profumi di prodotti esotici ed  i contatti umani.



Se non siete mai entrati in un emporio di quelli che si trovavano nei paesini di montagna negli anni 50, ignorate  che questi negozi non avevano nulla da invidiare ai modernissimi  ipermercati.
Si potevano trovare praticamente tutti i prodotti che venivano commercializzati in quelli anni, si andava dalla frutta alle lastre di vetro, dal carburo per acetilene alla mostarda, dalle lampadine alle Aspirine, ( queste venivano però vendute sottobanco trattandosi di un prodotto farmaceutico) e se vi serviva qualcosa di cui il negozio era sfornito, nel giro di pochi giorni ve lo procuravano.
Quando si entrava, un odore caratteristico di buono, un misto di sentori di frutta mescolati a aromi di pane fresco,di spezie, di caffè, di cioccolata e di molte altre cose, normalmente questi negozi erano sviluppati in lunghezza, occupati dal bancone provvisto delle caratteristiche bilance rosse di marca Berkel e dietro il negoziante  frequentemente assieme alla moglie.
Al mio paese  lo ricordo come un signore dai capelli candidi, con grossi occhiali da miope sempre gentile e disponibile,




nei momenti di calma del pomeriggio lo trovavi sempre col naso affondato nei suoi registri che  faceva conti, in quelli anni quasi nessuno pagava in contanti, ma le spese venivano segnate su un libretto a credito e quando a fine mese il capofamiglia riscuoteva lo stipendio di ritorno dalla miniera, la prima preoccupazione era quella di saldare il debito del mese, ricordo questo libretto delle dimensioni di metà quaderno, con la copertina marron ed all'interno le finche per la data, il nome del prodotto acquistato e l'importo della spesa, ricordo che nella finca  dei prodotti scriveva sempre generi.
Nell'altro negozio che serviva la zona, la mia famiglia non andava quasi mai avendo il credito da un'altra parte, però qualche volta ci entravo, magari per fare qualche commissione per conto di altre persone e ricordo la signora che era al banco ed era di una curiosità senza limiti, entrare significava sottoporsi al terzo grado riguardo gli avvenimenti propri, della propria famiglia o di chiunque la "Nozi" 
( così era chiamata e mai ho saputo il suo vero nome), ritenesse che potevo sapere qualcosa.
Una volta , che mi ritrovai con venti lire in tasca, entrai  accompagnato da un amico che aveva la fama di essere molto fortunato in quei giochi nei quali si estraeva da un cilindro bucherellato un bigliettino arrotolato stretto e sigillato ad un capo, su questo foglietto era scritto poi un numero ed in base al numero si vinceva un premio; dunque quel giorno era appena giunto un nuovo gioco, il mio amico tirò per mio conto un biglietto e ...vinse il primo premio!
  Questo premio consisteva in una scatola di timbri in gomma, un tampone inchiostrato per i timbri, un album da disegno ed una scatola di pastelli per colorare i disegni che venivano stampati cl timbro, questi sei timbri raffiguravano scene del Far West e ricordo una diligenza, un cowboy a cavallo, un cactus ed altre scenette che ho scordato.
Era una vera fortuna!
Al Tinol ( era questo il sopranome del commerciante), prese un colpo, come poteva vendere il plateau di biglietti se al primo tiro mancava il primo premio?
Allora ci fece un'offerta in cioccolato per lasciare esposto ancora qualche giorno il premio, accettai, ma il giorno dopo a scuola io e il mio amico Mario, raccontammo a tutti gli scolari di aver già vinto il primo premio, così gli altri ragazzi clienti del Tinol, si guardarono bene dal comperare il resto dei  biglietti sapendo che non c'era nulla da vincere.
Quei timbri li ho conservati per moltissimi anni e credo siano ancora esistente da qualche parte  della casa dei miei genitori.
Dopo la divagazione, ritorno al negozio.
Quando si entrava nel negozio, un campanellino od un cicalino annunciavano l'arrivo di qualche cliente, richiudendo la porta si notava che appese ad un chiodo si trovavano le scope di saggina assieme ad una decina di baccalà come si chiamava dalle mie parti lo stoccafisso essiccato e questa era una componente di tutti i negozi, poi un lunario che mi incuriosiva per la scritta: "Se esposto al pubblico applicare la prescritta marca da bollo", nessuno è mai riuscito a spiegarmi cosa significasse quella scritta.
Nella scaffalatura che si trovava lungo la parete dietro al bancone, in basso  c'erano dei contenitori dove si trovava il pane di due tipi normale ed all'olio, da quel pane si sprigionava una fragranza straordinaria, poi in altri contenitori la farina gialla per la polenta e qualche tipo di pasta che veniva venduta sciolta e per il trasporto si usavano dei sacchetti di tela che si portavano da casa, non esistevano le borse di plastica.
Sugli scaffali più in alto si trovavano i barattoli di latta, (credo da cinque kg.) contenenti  filetti di sgombro, di tonno, di conserva di pomodori, ( ma quella si trovava pure in tubetti simili a quelli del dentifricio e in quei tubetti la vedo commercializzata pure ai giorni nostri), poi marmellata e mostarda vendute sciolte da contenitori in legno sottilissimo.
L'inverno in qualche angolo si trovava il mastello con i crauti e poi le aringhe sotto sale da noi chiamate "cospeton" o "scopeton" termine  più diffuso, da mangiare con la polenta a proposito del quale si racconta che in qualche famiglia dove regnava la miseria, come pietanza da accompagnare alla polenta usassero appendere  sopra il tavolo un'aringa salata ed i commensali strofinavano un boccone di polenta sull'aringa per prendere un po' di sapore, ritengo comunque che questa fosse solo un'esagerazione.
Sempre su quello scaffale poi l'angolo della bontà: la cioccolata credo fosse solo della Ferrero e ricordo i Sultanini, barrette non di cioccolato, ma surrogato di cioccolato, ignoro cosa usassero al posto del cacao, il Sultanino veniva venduto senza involucro e costava 30£ poi verso gli anni sessanta cominciarono a venderlo avvolto in carta velina trasparente, metà Sultanino col pane è stata la mia merendina per diversi anni.
A 15£ si trovavano i Cremini sempre della Ferrero, avvolti in stagnola color oro e con una figurina che veniva poi collezionata di calciatori od altri personaggi sportive ed altre con scene del Far West.
Venivano venduti a 30£ pure dei cubi di marmellata dell' Althea e questi cubetti di marmellata avvolti nella carta velina avevano un'etichetta fatta a bustina che conteneva un francobollo da collezione.
Sempre dell'Althea di Parma il Sugoro un barattolo di sugo per condire la pasta molto usato a quei tempi.
In altri cassetti lo zucchero ed il caffè, anche quelli venduti sciolti, il sale era genere di monopolio e si trovava solo dal  tabacchino.
Il caffè veniva venduto in grani già tostato, oppure ancora da tostare, per tostare il caffè, in tutte le famiglie si trovava  una specie di forbice lunga credo un metro che al posto delle lame aveva due semisfere di latta, in una delle quali veniva messo il caffè da tostare poi chiudendo i manici, all'estremità si aveva una sfera col caffè che veniva girata e rigirata sulla fiamma del focolare finché i grani erano al giusto grado voluto di tostatura, in tutte le famiglie si trovava poi il macinino per macinare il caffè.
Ad una estremità del negozio si trovava poi il reparto frutta e verdura, non molte cose perché tutte le famiglie si coltivavano la maggior parte di quello che consumavano, però certi generi come i pomodori che il clima della montagna non consentiva di coltivare oppure uva , arance ed altra frutta esotica.
Ricordo che una volta mio padre mi ha portato una banana, la prima volta che ne assaporavo una e mentre me la stavo gustando a merenda è arrivato un mio vicino di casa, con lui non andavo molto d'accordo era noioso e pedante,  nemmeno lui  aveva mai mangiato banane, ma io non volevo assolutamente dividere quella prelibatezza con lui che poi non mi era nemmeno simpatico, così motivai il fatto che non potevo dividere in quanto  banane non ne avrei mai più visto, perché ero povero e anche lui affermò che la sua famiglia era molto più povera della mia, così incominciò la gara a chi era più povero, alla fine io mi mangiai tutta la mia banana, mentre lui si accontentò di mangiare la buccia che anche quella  aveva un gusto esotico, non mi sono mai pentito di quel mio egoismo anche perché, col passare degli anni, ho avuto modo di conoscere quanto lui fosse gretto e spilorcio.
Tornando alla frutta, per portarla a casa il commerciante usava la carta-paglia , una carta ruvida, sgradevole al tatto di colore giallo, il negoziante la avvolgeva a cono ripiegando la punta, nel cono inseriva  la frutta, poi piegava il lembo superiore per proteggerla; devo confessare che  quando durante l'estate uscivamo tutto il giorno nelle radure per portare al pascolo le vacche, quella carta così spessa la riempivamo di aghi di pino secchi poi avvolta come un sigaro la fumavamo, non oso pensare cosa veniva inalato da ragazzini di età poco superiori ai dieci anni.

mercoledì 21 marzo 2012

la colonia

Una riproposizione dei ricordi d'infanzia



Tanti e tanti anni fa vivevo in un paesino di montagna a mille metri s.l.m., l'economia del paese era basata  sul lavoro degli ultimi seggiolai ambulanti, ( lavoro tradizionale del paese) e sul lavoro dei minatori, anche questo era un lavoro tradizionale, poiché alla base del monte su cui sorgeva il paese, si trovava una miniera di pirite cuprifera, miniera che esisteva sicuramente fin dall'inizio del 1400, ma  quasi sicuramente estraevano il minerale già qualche centinaio d'anni prima.
Era questa la più importante miniera di pirite della Serenissima da cui ricavava il ferro, il rame e lo zolfo.
Tale miniera era in concessione alla Montecatini dal 1910 fino al 1962 anno della definitiva chiusura.
Tutti gli anni in quel dopoguerra, la Montecatini mandava in colonia sulla Riviera Romagnola i figli degli operai, così anch'io  mi feci le tre settimane di colonia marina.
Ricordo bene che non volevo allontanarmi dalla mia famiglia e per rendere meno pesante il distacco, mi venivano magnificate le bellezze del mare, mi raccontavano che nel mare terminavano la loro corsa le acque di tutti i fiumi e mi raccontavano che sopra il mare volavano gli aerei, così nella mia mente di fanciullo immaginavo una distesa d'acqua alimentata da una enorme cascata nella quale era confluita l'acqua di tutti i fiumi e sopra questa cascata come mosche, volavano gli aerei, poi venne il tempo della delusione quando mi accorsi che la grande cascata non esisteva.
Arrivò poi il giorno della partenza, quando lasciai il paesello con un grande magone e benché avessi solo sei anni , ricordo che in una scatoletta vuota di magnesia "San Pellegrino", mi ero portato un pugnetto di terra del mio paese, arrivati alla stazioncina vicino alla miniera io ed i miei compagni venimmo presi in consegna dall'infermiere della miniera, poi il primo viaggio in treno sul trenino elettrico della Montecatini fino alla stazione delle Ferrovie dello Stato.
Poi ricordo la grossa locomotiva a vapore che entrava in stazione sbuffando, avvolta in un cappa di fumo nero e di sibillante vapore.


Saliti sulle carrozze con i sedili di legno di terza classe, continuò l'avventura verso paesi sconosciuti: la stazione di Padova, poi Bologna e infine Rimini destinazione colonia Italia, ( e negli anni seguenti anche la contigua colonia Aurora)

Le tre settimane di soggiorno le ricordo come un periodo di lacrime per la nostalgia di casa,  a tale proposito una cartolina ricevuta da mia madre che per lungo tempo ho portato sotto la camicetta a contatto con la pelle; ricordo le fritture di pesce che mangiavo con gusto, era un piatto sconosciuto sul desco  di una famiglia che viveva sulle Dolomiti, poi ricordo qualche giocoliere che ci divertiva con le sue magie e qualche film che veniva proiettato all'aperto.
La "signorina" che ci accolse era una maestrina e si chiamava Ada Negri, negli anni successivi quando a scuola imparai una poesia di Ada Negri, mi sentii inorgoglito pensando fosse della mia "signorina", ignoravo che la poetessa era deceduta qualche anno prima.
Imparai dei nuovi giochi da fare in spiaggia con i tappi delle bibite o costruire i castelli di sabbia.
Quando il tempo era clemente si faceva il bagno e le passeggiate sull'arenile.
Una tragedia per me si verificò una notte quando mi svegliai  con il sangue di naso e nella luce fioca del camerone cercai il fazzoletto per tamponare il sangue e macchiai il giubbino celeste della Montecatini, venni sgridato dalla "signorina" per essermi sporcato di sangue e ritenni che non meritavo affatto il rimprovero per un evento che non era in mio potere controllare, sono passati diversi decenni ormai, ma quel rimprovero l'ho sempre considerato una vera ingiustizia.
Altro ricordo vivido: la luna rossa, enorme che si alzava dal mare, ai miei occhi di bambino, quella luna era enorme perché ero molto più vicino alla luna  rispetto al paese; poi le canzoni che ci facevano cantare la sera, una era " La montanara" che mi piaceva moltissimo poiché mi riportava sulle mie montagne e l'altra sulle note di " Addio mia bella addio..." faceva:
" Colonia Italia addio,
sola rimani qua,
Ti lascio il cuore mio
per l'anno che verrà.

Lo zaino è preparato
ed il resto l'ho con me.
ed allo spuntar del sole
io partirò da te".

Così venne il tempo dell'agognato ritorno a casa, il lungo viaggio sui treni arroventati dal sole e trainati da ansimanti locomotive con il fumo del carbone che entrava dai finestrini


 e faceva lacrimare gli occhi, la sete feroce attutita bevendo qualche sorso dal lavabo in bagno anche se una placca di ottone attorno al cannello ammoniva: acqua non potabile.
Infine di nuovo a casa con tante cose da raccontare ai familiari ed agli amici che ancora non conoscevano il treno ed il mare.
Ho ancora ben presente nella memoria quando appena ritornato a casa mi guardavo attorno con occhi meravigliati nel vedere come in tre settimane la natura fosse così rigogliosa e  di come fossero cresciute così tanto le piante di fagiolo, avevo meno di sette anni.

domenica 18 marzo 2012

lungo la golena

Conosco i fiumi,
conosco fiumi antichi come il mondo
le cui acque scorrono da più tempo del sangue nelle vene degli uomini...

                                                         (Langshoth Hughes)
 il fiume


 foglie d'edera, di ciclamino,foglie secche e muschio

passeggiata lungo la piana golenale

modello per bonsai

 
fiori di corniolo

Gli alberi che cantano
si spezzano e seccano.
E diventano pianure
le montagne serene.
Ma la canzone dell'acqua
è una cosa eterna.
(Federico Garcia Lorca)

A tutti gli amici un augurio di una felice e luminosa Primavera .

mercoledì 7 marzo 2012

8 marzo

Dedicato alle Donne:




Donna 
 

Quanto hai dato donna:
secoli di luce
che non hanno riflesso le coscienze
ingoiate da abissi di silenzio.

E quanto ancora:
radici per contenere la terra
velluto d'amore una spiga per toccare il cielo
fertili semi di coraggio
per un mondo abitato dalla guerra.

E quanto ancora              

di Carmen Yanez


martedì 6 marzo 2012

il luppolo




Compilando le schede sui fiori di Primavera, ho notato che la maggior parte dei fiori che escono alla fine dell'inverno sono molto belli, ma velenosi.
Ho deciso pertanto di pubblicare anche qualche scheda sulle piante di bosco commestibili; mi limito solo  a quelle che crescono copiose e la cui raccolta non arreca danno alla natura, ne conosco anche delle altre che non raccolgo, perché sono abbastanza rare e preferisco ammirarle durante le mie escursioni.
In questa scheda parlo del  "Luppolo - Humulus lupulus" .
Il luppolo è un rampicante molto diffuso, si trova  nelle siepi ombrose ed umide, le sue foglie assomigliano a quelle della vite,

si arrampica avvolgendosi lungo le piante fino a cinque metri di altezza.
Una curiosità:  Nel dialetto della mia infanzia la pianta del luppolo era conosciuta come "vigna mata" oppure viligon (plurale viligoi) cioè qualcosa che lega; fino agli anni 50, molti dei miei paesani giravano l' Italia come seggiolai ambulanti, quando parlavano fra di loro, perché gli estranei non capissero e non si intromettessero nei loro discorsi, usavano un gergo chiamato "scapelament del conza" , in questo gergo le parole venivano storpiate ad esempio: padrone, "paron" in dialetto si trasformava in "rompa" portando la sillaba iniziale alla fine della parola,
poi moltissime erano le allusioni in genere spiritose, ad esempio il prete veniva chiamato "el sgorla", cioè "lo scrolla", perché scrollava le tasche dei fedeli in cerca di monete.
Dopo tanto divagare arrivo a "viligoi" che era il termine con cui si chiamavano i carabinieri, dal nome dialettale  del luppolo per la sua caratteristica di legare le piante.
Nel dialetto bellunese e anche veneto. il germogli del luppolo sono conosciuti come "bruscandoi", si raccolgono a primavera, quando raggiungono l'altezza di uno o due metri e si strappa il germoglio lungo una decina di centimetri.
Questi germogli vengono lessati circa dieci/dodici  minuti, poi si usano per fare delle frittate eccezionali (si mescolano nell'uovo sbattuto), si utilizzano pure per fare dei risotti e, in tal caso, non occorre sbollentarli ma si soffriggono dopo aver fatto appassire la cipolla, anche i risotti acquistano un sapore delicato; si possono mettere anche nel minestrone oppure lessati e conditi in insalata,.
Le proprietà curative dei germogli per merito particolarmente  della "luppolina" sono molteplici, in quanto la luppolina esercita sull'organismo un'azione calmante e leggermente narcotica, ( il luppolo appartiene alla famiglia delle Canabacee ossia la canapa) inoltre  provoca effetti lassativi e di depurazione del sangue e del fegato, (aggiungo però che in virtù  di queste  proprietà calmanti non vanta poteri afrodisiaci, come dire: nessuno è perfetto)
Poi particolare importante: Il luppolo è usato nella produzione della birra, alla quale dona il gusto amaro e l'aroma, inoltre per le sue proprietà antibatteriche, agisce da conservante naturale e poi da consistenza alla schiuma.
Un' umile pianta, ma preziosissima per i suoi benefici e facile da trovare per la sua grande diffusione.


sabato 3 marzo 2012

la casa in riva al mare

come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e 'l salir per l'altrui scale.

Un certo periodo della mia vita ho dovuto passarlo in  fabbrica, non erano anni belli: ancora prima dei diciotto anni ero partito emigrante e non era una vita facile  per un ragazzo senza punti di riferimento, poi trovai un lavoro in una fabbrica nelle mie zone, tante ore ore di lavoro e retribuzione appena sufficiente per pagare una camera e due pasti al giorno.
Il lavoro era di una monotonia esasperante, una ventina di mandrini sui quali ruotavano delle mascherine e  ogni mascherina imprigionava una lente per occhiali che veniva molata con un abrasivo: l'ossido di cerio.
Il mio compito era di togliere la mascherina e sostituire la lente sempre con i macchinari in movimento dalle sette a mezzogiorno  e dalle quattordici alle diciassette più quattro ore il sabato, nessuna distrazione l'inverno con le mani nell'acqua gelida e l'estate nel caldo umido soffocante, le ore non passavano mai, ogni dieci minuti un'occhiata all'orologio, ma le lancette erano sempre lentissime, per distrarmi recitavo a memoria delle poesie o delle canzoni, oppure ripercorrevo mentalmente i sentieri che in anni migliori avevo percorso nei boschi, cercando di ricordare ogni dettaglio, dai sassi ricoperti di muschio ai discorsi fatti con qualche amico, a volte , ma troppo raramente, queste distrazioni mi consentivano di allontanarmi quasi fisicamente da quella prigione.
L'estate , a causa della tremenda umidità, venivano aperte le finestre a bocca di lupo con i vetri smerigliati e attraverso il triangolino dell'apertura riuscivo ad intravedere uno spicchio di cielo e uno spicchio di lago,  sul lago si intravedeva uno chalet e qualche barchetta e pensavo: Com'è possibile che ci sia gente libera di passare le giornate sul lago al sole, mentre io sono rinchiuso in questa prigione e la mia libertà consiste in due settimane di ferie e poi nuovamente in fabbrica senza nessuna prospettiva di una vita migliore?
La fortuna decise un giorno di accorgersi anche di me, avevo vinto un concorso e il nuovo lavoro mi lasciava molti intervalli di ore libere e fu così che una splendida mattina di sole, assieme ad un collega ed amico mi ritrovai allo chalet sul lago.
Dalla terrazza su cui mi trovavo vedevo in lontananza la famigerata fabbrica e il mio pensiero tornò subito a quei giorni senza speranza, quando il mio collega, che ignorava i miei trascorsi ma come se mi avesse letto nel pensiero, ruppe il silenzio dicendo: Pensa a quanto siamo fortunati, noi  siamo pagati per stare qua al sole in questo posto incantevole, mentre lassù ci sono le fabbriche e dentro gente che lavora !
Poi un bel giorno un Poeta scrisse una canzone: "La casa in riva al mare" e in quella canzone rivissi tutti quei tre anni prigioniero in fabbrica dove evadevo solo con la fantasia attraverso una bocca di lupo.
Grazie Lucio

E sognò la libertà,
e sognò di andare via, via